L’escluso – meno 2

Sono mesi che non metto mano a questi appunti. Ormai deve essere quasi un anno che non dormo. O forse è già più di un anno. Non so. Non ricordo. Col sonno se n’è andato pure il tempo. La memoria ridotta a brandelli.
Non sono più capace di concentrarmi. Leggo una pagina e devo fermarmi. Aspettare un’ora e poi ricominciare. Leggere un’altra pagina e fermarmi di nuovo per un’ora. È straziante. Anche il conforto della lettura mi sta abbandonando. Continuando di questo passo tra poco non avrò proprio più niente.
Ho provato a lavorare, come cameriere, in una pizzeria. Venticinque euro a servizio, dalle diciotto alle due di notte. In nero, naturalmente. Sono durato appena un fine settimana. Perché non sono più capace di concentrarmi. Non riuscivo a memorizzare il numero dei tavoli e sbagliavo tutte le comande. I clienti mi chiamavano – giovane, maschio, capo, qualcuno mi ha pure chiamato scarabocchio una volta – e io facevo finta di non sentirli perché tanto sapevo che dopo pochi secondi avrei dimenticato tutto. È stato umiliante. Mi sono sentito uno scemo. Il venerdì e il sabato mi hanno fatto terminare il servizio, la domenica no. Domenica a metà turno il proprietario della pizzeria si è avvicinato, mi ha preso per una spalla, mi ha trascinato in un angolo e mi ha detto:
– Per oggi basta così. Il cameriere non è un lavoro che possono fare tutti. Tu non ci sei portato. Sicuramente sarai portato per qualcos’altro.
Non gli ho neppure risposto, tanto non avrebbe capito. Ho preso la metà dei soldi in silenzio e me ne sono andato. Forse l’ho già scritto in questi appunti, o forse no. Non so. Non ricordo. Non era la mia prima esperienza da cameriere. L’ho già fatto anni fa e in un ristorante, non in una pizzeria. Avevo venticinque anni, credo, ed ero bravo, veloce e preciso. Ai clienti piaceva la mia cortesia e la mia celerità nell’esaudire le loro richieste. A volte riuscivo persino a prevenirle, ad anticiparle, perché avevo l’occhio lungo e scaltro. Ma l’insonnia mi ha fottuto. L’insonnia mi ha tolto la concentrazione e mi ha fatto passare per quello che non sono. Se non sei concentrato non puoi fare il cameriere e nessun altro lavoro. Per scrivere queste quattro righe ci ho messo un’ora.
Ho provato pure a fare il barista ma in zona cercano solo baristi con esperienza e il barista non è un lavoro in cui puoi bluffare.
Ho smesso di uscire la sera. Non mi fido a portare la macchina. La strada non la vedo. Devo intuirla piuttosto. Va bene che la conosco come il palmo della mia mano ma abbiamo una sola macchina, vecchia e sgangherata, borbottante come un anziano scorbutico, e non mi va che i miei genitori perdano pure questo catorcio per colpa mia. Come farebbero senza la macchina? Non me lo perdonerei mai. Meglio restare tutto il giorno dentro casa piuttosto che rischiare di schiantarmi contro un albero o contro un muro. Non mi riferisco all’incolumità della mia persona, non me ne frega niente, ma all’incolumità dell’unico mezzo di trasporto a disposizione dei miei genitori.
A mia madre questa mia reclusione preoccupa molto ma non mi dice mai niente. Mi guarda, sospira e non mi dice niente. Ha smesso di lavorare tutti i giorni. Ora non lavora più di tre volte alla settimana perché le sue forze non le permettono di lavorare di più. Non l’ho mai vista così stanca. Invecchia ogni giorno. Si curva ogni giorno un centimetro di più.
Quando mi hanno cacciato dalla pizzeria ai miei ho detto che non si trattava di un lavoro fisso ma che mi avrebbero chiamato ogni volta che ci sarebbe stato bisogno di una persona in più.
Venticinque euro a servizio, in nero naturalmente. Venticinque euro per otto ore di lavoro, dalle diciotto alle due di notte. Si può andare avanti così?
Ce l’ho fissa nella testa la scena di quando me ne sono andato dalla pizzeria dopo che il proprietario mi ha cacciato. Lui che mi porge i soldi, una banconota da dieci euro e qualche moneta, io che li afferro e lo ringrazio, come se mi facesse la carità. Io che raccatto la mia roba e me ne vado dal locale tra gli sguardi sarcastici dei miei colleghi. Mi sono seduto in macchina e sono scoppiato a piangere, per la prima volta in vita mia.
Margherita non l’ho più vista e non la immagino più. Ma ho conosciuto un’altra donna in questi mesi e ho avuto con lei un’avventura.
Ci sono notti in cui, giunto al culmine della disperazione, mi intrufolo in una chat, nella speranza di distrarmi un po’. Una di quelle chat gratuite e senza registrazione piene di depravati. Ma oltre ai depravati, che abbondano in quantità industriale, c’è anche qualche donna ed è qui che ho conosciuto Cécile.
Cécile ha trent’anni, come me, è laureata in biotecnologie e vive in una casetta sperduta sui Castelli Romani, insieme alla madre, francese. Per questo si chiama Cécile. Suo padre invece è italiano e vive a Roma. I suoi genitori si sono separati presto, quando lei era piccola, e Cécile è cresciuta in Provenza, dove la madre si è trasferita, dopo la separazione, con il nuovo compagno, francese anche lui. Poi ha lasciato anche quest’uomo e lei e Cécile sono tornate in Italia. Cécile si è laureata alla Sapienza, poi si è trasferita in Olanda, iscrivendosi a un master nell’università di Wageningen, ma non ha retto la pressione, complice anche la distanza da colui che all’epoca era il suo ragazzo, con il quale aveva alle spalle già una convivenza di un anno, ed è tornata in Italia, senza terminare il master.
Cécile mi è piaciuta subito. Per la sua intelligenza, per la sua sensibilità, talvolta persino poetica, perché anche lei si nutre di libri, per le sue idee, singolari e forse pure troppo, ma originali. Anch’io le sono piaciuto subito. Entrambi eravamo tormentati dalle nostre solitudini e così, dopo esserci parlati per una settimana ed esserci scambiati le foto, abbiamo deciso di incontrarci.
Avremmo dovuto vederci a Piazza del Popolo ma io non mi presentai. La sera prima Cécile mi aveva confessato di essere stata ricoverata per un mese in un ospedale psichiatrico, a causa di un suo presunto disturbo bipolare, e di aver terminato da pochi giorni una cura a base di psicofarmaci. Lì per lì non me ne era fregato niente, poi però ci avevo pensato su per tutta la notte e avevo deciso non solo di non vederla, ma di non sentirla più, di dimenticarla per sempre. Non volevo farla soffrire. Sapevo infatti sin troppo bene che il nostro primo incontro sarebbe stato anche l’ultimo. Cécile mi piaceva, mi era piaciuta subito con le sue idee bizzarre e il suo bisogno d’amore, ma non era scoccata la scintilla, quella scintilla che, per intenderci, era scoccata con Margherita. La sua instabilità poi mi preoccupava davvero. Accanto a me avevo bisogno di tutto tranne che di ulteriore instabilità.
Quando, al mattino, informai Cécile che non mi sarei presentato all’appuntamento, lei era già sul treno per Roma. All’inizio non volle credermi, ma quando finalmente si convinse che non stavo scherzando, diede in escandescenze. Me le disse di tutti i colori e io ero convinto che non ci saremmo più sentiti, ma lei mi scrisse di nuovo, un paio di giorni dopo, chiedendomi persino scusa. Fu in quel momento che mi resi conto di quanto Cécile fosse disperata.
Cécile era disperata tanto quanto lo ero io. Anche lei a trent’anni si ritrovava sola, senza un lavoro e in più tormentata da un passato terribile, di cui ignoravo ancora l’esistenza in quel momento. Allora decisi di vederla, il sabato successivo, prenotando persino una camera in un bed and breakfast di Nettuno, a un paio di chilometri da casa mia peraltro, investendo così i sessanta euro e rotti guadagnati in pizzeria. Da quando avevamo ricominciato a sentirci era esplosa la passione ed era inutile fingere, nascondersi dietro sciocchi e infantili pudori. Non volevamo che una cosa, entrambi: godere, donare e ricevere piacere, piacere carnale, senza sovrastrutture sentimentali. Dopo chissà quanto tempo.
Così Cécile venne a Nettuno. Andai a prenderla alla stazione e passeggiamo per qualche ora sulla spiaggia. Io le parlai delle mie riserve, della paura di farla soffrire e provai davvero a resistere, ma accadde l’inevitabile. Accadde ciò per cui avevamo deciso di incontrarci e di passare la notte insieme. Ci baciammo già lì, sulla spiaggia, poi pranzammo, velocemente, affamati di ben altro, e ci trasferimmo al bed and breakfast. Feci guidare lei, per non correre rischi.
Trovammo una stanza carina, colorata, pulita e profumata, con il parquet. Ci gettammo sul letto e dopo pochi minuti ci ritrovammo nudi, come se non fossimo mai stati vestiti, avvinghiati l’uno all’altra come l’edera sui muri. Con le nostre bocche avide di carne umana esplorammo ogni angolo dei nostri corpi magri. Le nostre costole sfregarono.
Quando venne il momento mi spostai sopra di lei ma… Un pugno nello stomaco, secco e improvviso, mi mozzò il respiro.
Era stata lei, proprio lei a colpirmi, Cécile, quella stessa Cécile che fino a pochi istanti prima si era cibata di me. Dopo avermi colpito si rannicchiò sotto le coperte, dandomi le spalle, e scoppiò a piangere. Mi sdraiai accanto a lei, la abbracciai e per qualche secondo provò a divincolarsi, scalciando come una furia, ma resistetti. Aveva una crisi di nervi e volevo che le passasse. Non volevo che si sentisse sola perché non era sola. C’ero io accanto a lei ed ero lì proprio per prendermi cura di lei. Non provavo spavento e neppure stupore per quella sua reazione violenta e insensata, almeno in apparenza. Volevo solo che capisse che per me c’era ben altro oltre il sesso, che non ero quel genere di uomo e che già i suoi baci erano molto per me, tutto se lei lo avesse voluto, perché mai nessuna donna aveva esplorato il mio povero corpo dimagrato come aveva fatto lei solamente pochi istanti prima.
– Piangi, Cécile, piangi. Sfogati, senza vergogna, senza paura, ci sono io qui a prendermi cura di te, – le sussurravo all’orecchio, baciandole con delicatezza la spalla nuda, che sporgeva dalle coperte.
Esaurito il pianto, superata la crisi, Cécile finalmente si voltò verso di me. Io le sorridevo e le accarezzavo i capelli castani.
Cécile non era bella ma lo era stata e poteva ancora esserlo, purtroppo però si trascurava. Non aveva un vero e proprio taglio di capelli, che, chissà da quanto tempo, crescevano liberi, così come volevano. Addosso aveva qualche pelo di troppo, ma il suo corpo, benché troppo magro, era tonico, snello e atletico. Perché si trascurava, è vero, ma faceva regolarmente sport. Praticava infatti un’arte marziale, il taekwondo, ed era il suo sfogo.
Ricominciammo a baciarci e quando la tempesta fu passata del tutto, Cécile mi fece una confessione terribile. Dietro quel suo pugno e quel suo pianto copioso doveva nascondersi un trauma, era evidente, ma non avrei mai potuto immaginare che si trattasse di un trauma così terribile. Di un dramma più che di un trauma.
– Fausto, io ti desidero, ti desidero più di ogni altra cosa, ma non è facile per me. Non è mai facile per me fare l’amore con un uomo. Il compagno di mia madre mi ha violentata quando avevo dodici anni. Così, in queste situazioni, è come se avessi ancora dodici anni. Capisci?
Accennai di sì con il capo, senza dire niente.
– Ci ho messo anni prima di confessarlo a mia madre, – continuò Cécile, – e quando finalmente trovai il coraggio di farlo, sai cosa mi rispose? Che ero pazza. Mi hanno sempre dato della pazza, tutti. Mia madre amava troppo quell’uomo, ma alla fine mi ha creduto ed è per questo motivo che abbiamo lasciato la Provenza e siamo tornate in Italia.
– Cécile, grazie. Grazie di essere qui ora, nonostante tutto. Io ho bisogno di stare bene, più di ogni altra cosa, e so che tu puoi farmi stare bene. Come hai fatto prima di rifilarmi quel pugno micidiale nello stomaco che mi ha tolto il respiro, – dissi sorridendo, tentando di rincuorarla e di metterla di nuovo a suo agio.
– Scusami! – disse Cécile abbracciandomi forte.
Volevamo superare entrambi quell’ostacolo e ci riuscimmo. Divampò di nuovo la passione e in modo ancor più forte dell’inizio ma… possedere Cécile mi fu impossibile.
– Io ti voglio, Fausto, io ti desidero, più di ogni altra cosa. Voglio sentirti dentro di me e sono disposta a tutto. Ti prego… – mi implorava Cécile contorcendosi dal desiderio, con un mugolio sommesso.
Ma non ce l’ho fatta. Ho fallito. Per diverse ragioni e innanzitutto pratiche. Il suo tempio era selvaggio, angusto e inaridito a causa degli psicofarmaci, come avevo imparato da Elvis. Ma le ragioni principali erano psicologiche, manco a dirlo. Una vocina maledetta mi sussurrava che mi trovavo lì non perché Cécile mi avesse scelto, non perché le piacessi, ma perché le ero capitato tra i piedi, che non l’avevo conquistata, ma che qualunque uomo, nella situazione disperata in cui si trovava Cécile, se la sarebbe portata a letto. Come Margherita all’inizio della sua esperienza universitaria bolognese. Margherita… Come se quella vocina infida non bastasse, mi tormentava pure il pensiero di Margherita. Allora la vocina diventava grido, grido che sconquassava le pareti di quella camera così carina, colorata, pulita, profumata, con il parquet a terra:
– Cosa cazzo ci fai qui! Tu non vuoi Cécile, non te ne frega niente di Cécile, tu vuoi Margherita!
Provammo e riprovammo, per ore e ore, fino a sfinirci, ma niente. Raggiunsi l’orgasmo più di una volta, ma senza riuscire a possedere Cécile, che lo desiderava più di ogni altra cosa, che mi implorava contorcendosi dal desiderio, con un mugolio sommesso.
Quando sembrava arrivato il momento buono, lei si arrampicava su di me o io su di lei, ma fallivo. Nonostante il fallimento non ci fermavamo, tentavamo ancora, a oltranza, Cécile ricominciava a implorarmi, come se mi chiedesse una grazia, tornava il momento buono, ma io fallivo ancora. E intanto il pensiero di Margherita si faceva ogni minuto più forte, più pressante, più ossessionante, e io, più che desiderare di possedere Cécile, di visitare il suo tempio selvaggio, angusto e arido, desideravo scappare da quella camera, piantare lì la mia povera amante e correre a Milano da Margherita, anche a piedi se necessario.
– È colpa mia. È tutta colpa mia. Ti desidero più di ogni altra cosa, ma ho rovinato tutto. Dovrei rinchiudermi in un monastero, – disse Cécile dopo il mio ennesimo fallimento, dopo che avevamo gettato la spugna ed era ormai calata la notte.
Era delusa, povera Cécile, delusa e insoddisfatta. Non riuscivo a regalarle quel piacere che aveva sperato di trovare in me, con me, e se la prendeva con se stessa. Non potevo permetterlo. Sarebbe stata un’ingiustizia troppo grande, troppo crudele, non liberarla da quel peso.
– Cécile, tu sei fantastica. Non ho mai conosciuto una donna con una tale carica erotica. Il problema non sei tu, il problema sono io. Ciò che ci impedisce di fare quello che desideriamo di fare con tutti noi stessi e più di ogni altra cosa, non è lo spettro della tua storia, ma lo spettro della mia, – tentai di rincuorarla.
Cécile mi domandò cosa intendessi con quelle mie parole oscure e io, per alleggerirle definitivamente il carico, per non farla sentire più in colpa, le confessai ciò che, fino a quel momento, non avevo mai confessato a nessuna donna, e facevo persino fatica a confessare a me stesso.
– Cécile, ciò che sto per dirti non l’ho mai detto a nessuno ed è il mio peso più grande, il mio più grande tormento. In trent’anni non ho mai fatto l’amore con una donna normale. Ho avuto decine e decine di rapporti sessuali, ma ho sempre dovuto pagare, – dissi guardandola dritto negli occhi, in quei suoi grandi occhi neri profondi come pozzi.
– Anche per me non è facile, – aggiunsi con un sospiro.
Cécile mi abbracciò forte.
Cécile si era offerta a me, aveva offerto a me il suo corpo e il suo cuore, completamente, senza dubbi, senza riserve, senza paure, come nessuna donna aveva fatto mai prima di allora, e io non sono stato capace di cogliere l’occasione. Ho lottato, ma ho perso. Forse è un bene. Forse non avrei sopportato di aver sedotto e abbandonato una creatura così disperata come Cécile.
Dopo la mia confessione decidemmo di dormire un po’. Cécile non sapeva della mia insonnia. Se lo avesse saputo avrebbe rinunciato al suo sonno, ne sono certo. Perché nella mia vita ho conosciuto poche persone umane come Cécile. Nei suoi sogni bizzarri e irrealizzabili non aveva che un obiettivo, uno solo: migliorare il mondo. Non sopportava le ingiustizie, le iniquità, non sopportava di vedere gli uomini soffrire e soprattutto i bambini. Ne parlava con l’ardore della martire, pronta a sacrificarsi per le sue singolari convinzioni. Voleva che nessun uomo soffrisse più come aveva sofferto lei, che non ci fossero più carnefici e vittime, ma un unico popolo umano, semplicemente umano, senza nessuna distinzione, di sesso, di colore, di ceto. Se non avessi conosciuto Margherita… Se non avessi conosciuto Margherita ora avrei Cécile al mio fianco e starei meglio. Senza dubbio.
Cécile si addormentò subito. Io la abbracciavo ed era bello stringere il suo corpo nudo e caldo, sentirlo sul mio e percepirne ogni minimo sussulto. Era bello vegliare il suo sonno. Chiusi gli occhi, con l’intenzione di non riaprirli fino al mattino. Volevo che si riposassero, almeno loro. E poi potevo illudermi facilmente di dormire stringendo tra le braccia una giovane donna nuda che mi desiderava più di ogni altra cosa.
Ma all’improvviso una puzza insopportabile mi ferì le narici. Una puzza di uova marce, che non sentivo da anni, dall’ultima gita delle scuole elementari nella riserva naturale di Tor Caldara, nota per le numerose sorgenti sulfuree.
Aprii gli occhi, disgustato, e lo vidi. Lo vidi in piedi vicino al letto ed era la prima volta che si faceva vedere. Lo avevo percepito da sempre, da quand’ero un bambino, tante volte nella mia vita avevo sentito il suo fiato nauseabondo sul collo, ma non si era ancora mai palesato ai miei occhi. Ora si trovava lì, in quella camera così carina, pulita, profumata, colorata, con il parquet, in piedi vicino al letto, e mi fissava. Mi fissava e sorrideva. Era un sorriso beffardo il suo, che mi parlava:
– Cosa credevi, mio caro Faustino, che un uomo potesse arrivare a tanto con le sue sole forze? Che un uomo potesse raggiungere da sé già in vita il nulla che lo attende dopo la morte? No, mio caro Faustino, no… Un uomo da solo non può cadere così in basso come hai fatto tu. Ha bisogno di una spinta, e non di una spinta qualunque, ma della mia spinta.
Il Nero mi guardava e sorrideva. Un fascio di luce lunare, una luce debole, malata, anemica, che filtrava nella stanza vincendo la fragile resistenza di una tenda troppo sottile, lo illuminava.
Fui assalito dal terrore. Rabbrividii dalla testa i piedi. Provai così tanto freddo come mai nella mia vita ma fu solo un attimo. Subito dopo iniziai a grondare di sudore e lui scomparve.
Da quella notte il Nero è sempre con me, è sempre al mio fianco e non mi lascia neppure per un secondo. Non parla, mi fissa e sorride beffardamente. Per quanto mi sforzi con tutto me stesso, non riesco proprio ad abituarmi alla sua presenza. La sua presenza costante è una tortura e so che non parlerà fin quando non sarò io a rivolgergli la parola per primo. Voglio resistere. Perché sospetto che parlare con lui non farà che peggiorare le cose, se possibile.
Finalmente giunse l’alba e io svegliai Cécile a suon di baci. Lei mi salutò con un sorriso pieno e sincero, un sorriso che era l’esatta confutazione del sorriso beffardo del Nero, la sua soluzione, il suo rimedio, la sua cura.
Ci provammo ancora e ancora, ma non ci fu niente da fare. Sfiniti dal continuo e inutile sforzo, ci ritrovammo sdraiati per l’ennesima volta l’uno accanto all’altra. Per l’ennesima volta insoddisfatti e frustrati.
– Vorrei tanto rivederti, – disse Cécile.
Io la guardai con intensità, dritto negli occhi, ma non risposi.
– Ma a quanto pare tu non vuoi rivedere me, – ringhiò dopo la mia mancata risposta voltandosi di scatto dall’altra parte e dandomi le spalle.
Dopo qualche minuto mi alzai dal letto e le proposi di fare la doccia insieme ma lei rifiutò. Svaniva così anche l’ultima possibilità di fare l’amore.
Lasciammo il bed and breakfast, ci prendemmo un caffè sul lungomare di Nettuno, deserto, poi la accompagnai alla stazione. La rabbia le era passata e prima di salire sul treno mi diede un bacio. E anche un’altra cosa oltre al bacio. Un’immagine raffigurante Padre Paisios del monte Athos, ricordo di un viaggio in Grecia con suo padre, la scorsa estate.
– C’è qualcosa oltre a noi in questo universo. Qualcosa di molto più grande di noi e dell’universo intero. L’ho capito da poco e voglio crederci. Sì, Fausto, voglio crederci, perché ci aspettano tempi bui. Spero che questa immagine ti porti fortuna. Pregherò per te, – disse Cécile baciandomi ancora una volta, l’ultima.
Da quella mattina non l’ho più vista né sentita. Ma penso spesso a lei, quando sono stanco di pensare a Margherita. Osservo l’immagine di Padre Paisios e penso a lei, a ciò che poteva essere e non è stato. Mentre il Nero mi è accanto e si prende gioco di me con quel suo sorriso beffardo.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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